lunedì 2 febbraio 2009

AGGRAPPATO AL CIELO- Sesta ed ultima parte.

IL PRINCIPIO DI ARCHIMEDE
Ieri sera era troppo tardi, ma l'avevo deciso e quindi stamattina all'alba mi sono messo in macchina e, senza fretta, sono giunto qua.E' stato un buon viaggio, una serie di benevole carezze lungo i rettilinei e le curve di un itinerario che conosco a memoria. Stavolta sono entrato in città dall'alto, dalle rocce di S. Panagia, dove un cartello sgangherato ti comunica che questo è un luogo per i diritti umani e per la pace. Un grido nel deserto, una pubblicità da saltimbanchi, ripetuta all'infinito agli ingressi di tutti i centri, grandi e piccoli; ci sono i paesi del pane, del formaggio, delle lacrime e dei sorrisi, dei libri, del barocco, del pistacchio, della libertà…chissà cosa avranno piazzato all'ingresso di Gela o di Corleone. Quanti sono in Sicilia i centri della legalità o del rispetto ambientale? Sarebbe meglio lasciare i luoghi al suono semplice e puro del loro nome: un fonema dice molte più cose ed altre le lascia immaginare.Seduto in auto, da un tempo indefinito, dietro un angolo di strada preciso, mi sto chiedendo in quali altre stagioni ho calcato queste strade. Io sono invecchiato, ma l'angolo è rimasto identico e ho la sensazione che mi stia osservando perplesso. Probabilmente si starà chiedendo se non mi sono stancato di lasciare la mia ombra su questo marciapiede. Durante alcuni inverni di vent'anni fa, in certe sere spazzate da un forte vento di terra, attendevo il momento giusto per incontrarti e l'attesa non mi pesava. Faccio la medesima cosa adesso, anche se non c'è più alcun appuntamento, alcuna logica, alcuna speranza.

Demoni ad Ortigia.
Quando esci dal portone sei una lama di colore rosso, ti guardo con la consapevolezza della prima volta; vorrei rallentare i tuoi movimenti però mi sei già davanti e io vorrei allontanarti un po’ da me per guardarti meglio a figura intera.
Tu mi aliti un ciao a 2 millimetri dalle labbra…ti prendo le braccia e porto il tuo seno a un attimo dal perdersi contro il mio. Andiamo via da qui, lontano dai due gusci vuoti che siamo l’uno senza l’altro. Perché ridi ? Oggi parleremo in modo assolutamente consono a ciò che siamo. Hai paura ? No, ridi, sei un’onda di piacere puro, non c’è nessun’altra sensazione che possa inficiare il senso di questo giorno.

Luce a picco fra le palme ad anfiteatro, luce ovunque e mare: una danza di azzurri e le tue gambe a dettare il ritmo delle onde. Ti ho mai detto che hai le caviglie più musicali che abbia mai visto ? Ti volti di scatto e mi butti in faccia i tuoi occhi. -“Basta, Enzo, guardami bene, sono una vecchia signora – mi prendi la mano – tocca il mio seno, guarda da vicino la mia pelle, sfiorami i capelli. Sono un’anziana donna e tu un vecchio e impenitente libertino.” -
Io non bado alle lacrime che ora puliscono i tuoi occhi e mi avvicino fino a bruciare la mia anima dentro le mille pagliuzze delle tue iridi e ti bacio facendo sbattere i denti contro i tuoi. E abbiamo di nuovo 16 anni e dell’amore non sappiamo nulla e il sesso è l’unica cosa che vogliamo, l’unica che riusciamo a capire. Siamo tornati le rolling stones pericolose dell’altro ieri e mi metto a singhiozzare senza freni, senza tempo, senza pietà…voglio le altre tue labbra e disintegrarmi dentro il tuo utero. Che la notte rovini su questo giorno luminoso e aperto.

Ci siamo amati di più lungo questo periplo marino che in mille giorni di coiti sfrenati, ci siamo sfiorati le vite per gridare che non potrà mai più esserci una prossima volta. E anche questa è una menzogna: la volta è una sola Cinzia, apparecchiamo il desco a questo miracolo, parlami delle tue poesie e delle tue paure, delle nostre canzoni e di quel giorno sotto la pioggia quando ti dissi “ I tuoi capelli sono almeno la metà dei motivi per cui ti amo”.
Piove sempre ma è bellissimo quando butti indietro la testa e ti lasci baciare il collo senza pudore;
Esce il sole di questa antica città e ci fulminerà qui, davanti alla fonte Aretusa come due amanti pietrificati dallo sguardo di una Medusa invidiosa.Siamo osservati da decine di persone, giro turistico con spettacolo fuori programma: assistere ad una fiction vera… Andiamo via amore mio, andiamo a indossare nuovamente i gusci lasciati al parcheggio sotto casa.
Siamo riusciti a passare dentro la cruna dell’ago ad essere il filo sottile puntato nella seta, il rammendo nel vuoto crudele di uno strappo, siamo il tendersi obliquo dentro la trama perché amare non è altro che un amarsi riuscito male.


Quando i demoni se ne vanno…non resta nulla.
E' una tersa mattina di fine estate che si è fatta attendere a lungo, capricciosa e vanesia, come una star ad un ricevimento in suo onore, prima di comparire davanti ai suoi ammiratori. Però ora ogni cosa è al suo posto, perfetta. Non attendo te occhi azzurri, attendo il passato. Quel passato che mi appartiene più d'ogni altra cosa perché possiede ancora una carica vitale profonda, un desiderio non sedato. Il sole, tiepido quanto basta, mi scalda il viso: ho voglia di caffè e placida tenerezza. E' bellissimo muoversi mollemente con gesti risaputi e familiari: una solare intimità dei luoghi che si riflette dentro il mio spirito. Galleggio con naturalezza… per il principio d'Archimede evidentemente possiedo un peso specifico inferiore ai pensieri nei quali sono immerso. Lo stare bene assoluto.
Quanta della mia passione cammina ancora da queste parti? Ho proiettato me stesso sul selciato del Passeggio Adorno e l'immagine è arrivata sino alle acque del Porto Grande, una parte dei miei occhi è rimasta ancora fissata a un mattino di molti anni fa, quando tutto era ancora di là da venire, così una parte dei miei occhi si è irrimediabilmente persa da queste parti. Giro intorno lo sguardo verso il Plemmirio punteggiato di case per ricordarne una, situata un po' più in là, sul deserto di pietre aspre del Capo con il faro. La casa c'è ancora, occhi azzurri, ma non ci appartiene più perché, violentata dagli anni, non sente le nostre voci né quelle degli amici di allora. Adesso solo il vento salmastro del mare l'accarezza, col sentimento un po' esclusivo di chi non ammette altre condivisioni affettive se non quelle del mirto e degli olivastri selvatici. E già lo sappiamo entrambi che non c’è bontà nell’amore, che non c’è pace, oppure siamo noi che non abbiamo trovato altre vie alternative ad un principio assoluto e beffardo che ci insulta ogni giorno. Da questa ringhiera placida e sonnolenta il mare e il vento mi fanno da anfitrioni, pronti a sorreggermi con garbo in una giornata difficile dentro la quale mi son voluto adagiare con cosciente voluttà.


Ho lasciato l'auto e scendo lentamente verso la marina, c'è solo il rumore dei miei passi e il tenue sciabordio dell'onda breve che la brezza leggera spinge su questo baluardo della Fonte Aretusa. Tu non sai della mia presenza qui, forse non sei neanche in città, eppure continuo a vederti ad ogni passo, occhi azzurri. Sei un tutt'uno con questi palazzi che si specchiano luminosi sull'acqua immobile della rada. Ti somigliano allo stesso modo queste strade con i piccoli portoni segreti, aperti su antichi silenzi e la passeggiata dignitosa con gli alberi curati che guarda l'altra riva un po' confusa nella caligine estiva.

-Enzo, per favore non baciarmi…-

-Non lo farò, va bene, ma lasciati guardare-

E' accaduto qui, ma il confronto tra ciò che dovrebbe essere il luogo in cui mi trovo e quello che in realtà è diventato, mi ferisce. Non ho alternative: preferisco elidere tutto ciò che è incongruo, stonato e difforme dall'immagine che conservo nella testa. Così, lentamente la fonte rivive, si riappropria dei suoi colori e dei suoi rumori: non più anatre starnazzanti, solo il fruscio dell'acqua dolce che scivola piano nel mare. Nessuna parete, nessuna ringhiera a far da confine. Solo il senso di un tempo immemore, sospeso come il miracolo della vita, dell'acqua, della frescura. Io sono abbastanza sciocco da credere ai miraggi, da perdere la mia identità in questo gioco astruso; sto qui ad aspettarti per un ultimo appuntamento a cui tu non verrai. Io dovevo esserci perché, nonostante tutto, m'illudo che per certe cose non possa esserci una fine. E' in questo modo che i luoghi e gli oggetti costruiti dall'uomo ti legano il cuore: assorbendo le tue emozioni e le parole pronunciate in loro presenza. Cammini lungo una strada, svolti un angolo, ti siedi su una panchina, guardi l'ingresso di un giardino pubblico…ogni luogo ti ricorda qualcosa o qualcuno, anzi diventa quella cosa o quella persona.
-"Mi piace parlare con te. Mi è sempre piaciuto."-
-"Si lo so, è lo stesso per me , ma se io ti chiedessi ora , qui, se c'è mai stato un momento in cui mi hai amato ? Sii sincera, per favore"-
Un breve silenzio,come se ti raccogliessi in te stessa.

-"Sì certo, in molte cose ti ho amato. Posso dire di averti amato. Ma io non voglio stare con te, non posso stare con te, rovineremmo tutto!"-

Dieci anni fa lo inghiottii, il rospo: che fosse tanto indigesto lo capii solo all'atto della deglutizione, ma lo inghiottii lo stesso. Mentre ti allontanavi pensai che era un atto , un momento della nostra vita, che avremmo avuto altre occasioni. Eri assolutamente bella, assolutamente lontana, assolutamente sola; totalmente tua. Il demone era ancora vivo, allontanandoti lui cresceva a dismisura, si dispiegava in tutta la sua infernale grazia; e il tempo trascorso è , banalmente, il mio esercizio di riparazione, la lucida considerazione affinché io capisca di essere stato sempre una strada parallela alla tua, vicina a sufficienza da poterci guardare dentro ma non da camminarci assieme. Oggi il sole è chiaro, un'armonia perfetta che monda il paesaggio da ogni imperfezione e io sono un uomo fortunato, non allegro né soddisfatto, ma cosciente della sua vita questo sì. Non è poco. L'unico rimprovero che mi faccio è che dovrei stare più attento, quando dico o penso certe cose: i mai, i per sempre non sono materiale da maneggiare con disinvoltura alla mia età. Si tratta di frutti proibiti. Per me sono stati l'anticamera dell'impotenza, monoliti eretti nelle praterie della mia vita. Per quanto mi sia allontanato, nonostante l'infinità di stagioni trascorse, infine mi ritrovo sempre di fronte ad essi: o sono la verità assoluta o il vicolo cieco in cui mi sono cacciato da ragazzo, e il demone ride.

Non ti bacerò più occhi azzurri, il pericolo è scongiurato, ascolteremo la musica a basso volume come piaceva a te vent'anni fa. Ti racconterò per l'ultima volta sottovoce la storia comune di quelli che, impauriti da certi sentimenti, li precludono al proprio spirito e, a forza di camminare ogni giorno nella polvere delle piccole miserie, dei sorrisi ipocriti e delle carezze interessate, hanno visto sparire dai loro orizzonti la gioia di un'emozione vera. Fammi dire, non parlo di te, non obbligatoriamente, non solo di te: ho lasciato sparsi in giro per l'Italia e la Sicilia molti brandelli di me: qui come a Palermo o Milano o Trapani, essi hanno fatto il nido e sono prosperati. Adesso mi stanno davanti per un ultimo commiato.
- "Mi dispiace per quest'incomprensione…è la prima volta che accade Enzo. Ma, ti giuro, sono stata sempre leale con te"- La lealtà non esiste. E’un surrogato delle menzogne che ci raccontiamo ogni giorno e te lo dico a capo chino. Poi alzo gli occhi e li fisso nei tuoi. Sei sincera, assolutamente sincera: il fatto è che siamo arrivati in ritardo anche per lasciarci.

- E' vero, sai essere leale e ti odio. Adesso avrò bisogno di un po' di tempo, devo trovare un equilibrio nuovo."- dovrei dirti questo ed invece ti bacio e nulla si può dire di più perché non è una storia d’amore. E’ una storia e basta.

Di tempo n'è trascorso a sufficienza. Io non sono guarito perché non sono mai stato malato; l'ho capito qualche secondo fa guardando il mare. Stronzi come me si nasce e ci si rafforza crescendo, è una modulazione diversa dell'anima, un'indole elastica che, piegata ad altri fini, torna naturalmente su se stessa. Non me ne sono accorto: un piccolo drappello di turisti è arrivato da queste parti. La fonte è di nuovo un fenomeno da baraccone, troppe fotocamere, troppi gelati, troppi calzoni corti e sandali di cuoio. Nemmeno qui c'è più spazio per me, la misantropia mi spinge a cercare un altro rifugio. In fondo basta svoltare al primo angolo nella prima stradina per ritrovarsi solo.
- "Spesso mi sento isolata, sai. Con nessuno mi riesce di parlare come faccio con te. Tu non puoi immaginare che razza d'ambiente sia l'ufficio dove lavoro, però la gente pensa che io sia troppo superba o snob. Non siamo così, se parlo con te si sciolgono i nodi, quasi tutti"- E sorridi mentre le tue parole m'inseguono ovunque: in un modo o nell'altro sei venuta all'appuntamento.

-" Quando ero bambina non uccidevo nemmeno le formiche…"-

-" Ormai è tardi per pensare ad un figlio"-

-" Se avessimo messo al mondo una creatura, sarebbe stata femmina. Una bellissima bambina…una bambina…"-
Sono sbucato da un'altra parte, in vista del Castello Maniace, qui di turisti neanche l'ombra. Poggio le spalle contro un muro e giro lo sguardo intorno lungo tutta la marina piena di sole: non sto male anzi mi ha preso una sottile e dolcissima euforia. Nella memoria si è acceso un altro lungomare, opposto e uguale a questo, un'altra acqua fatta di sale e di mulini a vento. Là c'è un paese bianco sotto il monte che guarda lontano le Egadi: un'illusione d'azzurro.

Là vagabonda ancora, stordita, la mia fiducia nella vita e nell'amore. Mi fa una tenerezza infinita, ha i capelli bianchi come i miei ed è ancora molto bella.Sono prigioniero di me stesso, mentre l'accarezzo con gli occhi, lei continua nel suo incedere lento e leggero, io la guardo mentre si allontana sempre più…potrei perderla per sempre o per sempre rimpiangere di non averla fermata, di non averle detto che non mi è costata fatica rincorrerla fino a dimenticarmi di me.

–" Aspetta! E’ questo il luogo e il momento, non ce ne saranno mai altri, fermati"- Lei si volta, e non c’è più nulla fra la mia idea e il sogno, nemmeno questi veli che stanno scivolando sui suoi fianchi. Sei tu! Proprio tu! E’ questo dunque ciò che si prova davanti ad un fantasma: non è uno stare bene o male,è una marea di sensazioni e di parole quella che mi travolge.

Anni d'idee e di sogni trattenuti a stento stanno qui, sul ciglio di questa baia, in bilico tra la sorpresa e il rammarico di non saper fermare per sempre tutto questo. Immobile non so che fare. E' la stessa sensazione di trent'anni fa ed io non credevo che potesse raggiungermi ancora, eppure è accaduto. Perché sei venuta? Perché ora? Vuoi stabilire, in modo definitivo, una priorità, un possesso che t'appartiene? Te lo domandai chiaramente, ed era inverno
- "Ma tu mi ami?"-
- "Non lo so…"- Eri pallida, quasi rassegnata e mi guardasti andar via. Guarda ora, principessa, che magnifico palcoscenico c'è toccato stamattina. Io non ho più alcuna malinconia da raccontarti, nessun bacio da chiederti che tu non mi abbia già dato. Credevo d'esser arrivato fin qui per un commiato finale all'altra metà del mondo, mi ero già scritto il discorso senza considerare la disponibilità dell'uditorio. Ma adesso che siete ferme, intorno a me, e mi osservate attente, donne, bambine, ragazze di un tempo, madri di oggi, fidanzate e amanti, appassionate o disilluse, abbandonate o perse, non mi lascerò sfuggire l'occasione. Ho molte cose da dirvi…non riuscirò a dirvene compiutamente nessuna! Spero che, per intuito, capirete ugualmente, se così non fosse non ditemelo, vi prego, lasciatemi l'illusione che ci siamo compresi. Mi aiuterete ad andare lontano.
Il sole è salito quasi allo zenit e questa terra è trasfigurata dal caldo; i gelsi neri sono terminati. Ho le mani pulite finalmente e completamente vuote, come le strade d'Ortigia a quest'ora. Forse oggi che l'armonia ci possiede potreste seguirmi, almeno una volta, sul filo della vita che ci corre incontro.

- Non baciarmi-
- Ti amo-
-Non voglio, non posso, stare con te-
- Lasciami in pace!-
-In qualche modo ti ho amato, sì ti ho amato-.
- Non lo so-
- Buonanotte mio sogno proibito-
- Mi piace parlare con te, mi è sempre piaciuto.-

Guardate, le parole trascolorano: E' rimasto il vostro sorriso, una pausa breve prima dell'ultimo salto. Ora tocca a voi: conquistate almeno una volta la mia solitudine. La luna liquida e le stelle fitte nel nero della notte ansiosa sono storie passate, parole vuote, di plastica, ma il silenzio del cuore nei giorni in cui il riso c'era compagno spietato e beffardo è un racconto molto vicino a noi. Vi prenderò, un giorno, in una prossima vita, in una città diversa, dietro un altro angolo; nella danza che avete lungamente negato sarete travolte anche voi.Non potrò riderne e non vi darò il veleno acuto che ha gonfiato i miei giorni. L'orologio sta girando in fretta, troppo in fretta, non è più il momento di stupide ripicche. Le ombre si stanno allungando, io con esse e finalmente non è più tempo di demoni, né di angeli. Fra poco sarà la fine del giorno e io voglio che la sera mi trovi ancora una volta, come sempre: aggrappato al cielo.

venerdì 30 gennaio 2009

AGGRAPPATO AL CIELO- Quinta parte


S. GIOVANNI LI CUTI


La città preme e assedia con arroganza questo piccolo porticciolo, è un tipo di violenza molto diffuso qui come in altre città dell'isola, alla fine ci fai l’abitudine. Lottare continuamente perché ciò non avvenga diventa un lavorio crudele, qualcosa che può privarti anch’esso di un rapporto normale col tuo ambiente. Un giro vizioso: i miei conterranei si strappano le vesti quando la vita li porta lontano ma coloro che invece ci abitano, o essi stessi quando tornano, fanno di tutto per distruggere, lordare, sfigurare i luoghi rimpianti sino a poche ore prima. E' un'attività nella quale, seppur con meriti e attitudini diverse, quasi tutti si cimentano. Il colpo di grazia in genere è sferrato dal politico di turno e dai suoi accoliti: sono essi ad averci regalato negli ultimi 50 anni lo sfacelo che ci circonda, il barocco sfondato o il liberty stuprato, una carneficina diffusa e sanguinosa.

Però ogni tanto un miracolo lascia in vita qualche posto come questo, un'oasi sempre troppo piccola e mortificata rispetto al cancro che sta cercando di divorare ogni cosa. A S. Giovanni li cuti le case riescono ancora a ridere con i tre o quattro colori che hanno a disposizione : il grigio sfumato, il giallo pallido, il rosa diluito e il bianco. La piazzetta che guarda il mare ha nel centro il suo albero d'ordinanza e, in un angolo, la fontanella in pietra lavica lavora onestamente per assolvere il suo compito naturale: sprecare l'acqua preziosa sul selciato, il mare s'insinua dentro una darsena grande come un bicchiere e accarezza le pietre lisce e nere dell'arenile.Le luci ormai sono accese, ma discrete, io guardo in basso verso l'acqua scura e oleosa che scivola lenta sulle barche allineate come muli attaccati ad una stessa lunga corda.

Finalmente c'è la calma necessaria per lavarsi le mani, il risultato non è perfetto, ma posso accontentarmi, questa sera mi presenterà ben altri esami da superare. Passa qualche coppietta, mi guardano tutti con stupore e fastidio: cosa ci fa un tizio solo in un posto come questo? eravamo venuti per stropicciarci un po' a comodo nostro e adesso 'sto cretino ha rovinato tutto ! Sono assolutamente certo che è questo ciò che stanno pensando. Non me ne frega niente, cerchino altre alcove, altri lidi, altre vite da consumare, io non cederò il nido a questi sparvieri da strapazzo, non stanotte. C'è un silenzio corposo solcato di tanto in tanto dal ronzio delle auto che passano veloci a cento metri da qui sul lungomare. Mi siedo con le gambe penzoloni sulla massicciata di cemento che fa da banchina, e sono finalmente solo.

Ho cambiato spesso i luoghi dove vivere, ho provato a diventare cittadino del mondo, di questa piccola parte di mondo che mi è toccata in sorte, ma non sono un uomo adatto per tutte le stagioni. E' stata una forzatura: appartengo ad una sola città, anzi ad una parte di essa e le stagioni, una volta passate, si possono ricordare senza impegno eccessivo non rivivere. Negli ultimi trent'anni ho danzato spesso con dei sosia, facsimili del sesso, della parola, del pensiero e non l'ho gradito; danzavo con le lacrime agli occhi perché la musica mi è sempre piaciuta, perché se stai fermo sparisci, se non ti metti in gioco non godi, se non provi non conosci. Maledizione, sembra tutto così ovvio: ma io sapevo di aver a che fare con surrogati, lo capivo quasi subito e…ci provavo lo stesso. Faccio parte di una generazione d'imbecilli cresciuta a pane e autocritica, gente che, a forza di cercare dove ha sbagliato, è riuscita a liberare tutti gli spazi per coloro che mai hanno avuto uno scrupolo e mai ne avranno. Lo ha detto fino all'ultimo un vecchio e allampanato giovanotto milanese: la mia generazione ha perso. E' vero Gaber, prendiamone atto, potremo anche riderci sopra, cambiare registro ma non cancellare la malinconia di una sconfitta annunciata. Se alzo la testa verso il cielo di fine estate non vedo stelle, troppe luci artificiali, troppe distrazioni. Ho un disperato bisogno d'onestà intellettuale perché l'ho sempre saputo o perlomeno percepito che, assieme a questa vita cruda, reale, con i suoi contorni netti e indiscutibili, c'è un'altra esistenza. Una vita diversa, trasversale, che emerge all'improvviso dentro i miei giorni per poi immergersi nuovamente nell'indefinito, nel probabile mai sicuro. Una sospensione capace d'assumere qualsiasi forma, in qualsiasi momento oppure non assumerla mai. Per me non è mai stato difficile galleggiare in questa nebulosa e nemmeno doloroso ; è vero semmai il contrario. Nella vita normale, quotidiana, sbaglio sempre e soffro senza voluttà nell'altra invece…che sogni, che gioie, che visioni.

Un leggero brusio, un parlottare trattenuto, un'altra coppia che s'allontana e di me non saprà mai nulla. Non provo nessun dolore, mi difendo così dai molti distacchi e dal nomadismo della mia vita; ho sempre abitato in grandi città troppo diverse fra loro, mi sono accomodato spesso anche in piccoli paesi, mondi fini a se stessi, autosufficienti e orgogliosi. Nessuna cosa al mondo può unire Varese a Castelvetrano, Milano a Palermo, Paceco a Catania, Alessandria a Siracusa, la pianura padana e Capo Isola delle Correnti, Firenze e Grammichele, ma io li ho attraversati tutti e tutti mi son rimasti addosso.

-"Sei fortunato! Io della vita non ho visto quasi nulla."- Anna lo dice spesso: rassegnazione? Invidia?

-"Vi lamentate perché avete troppo, u Signori duna biscotta a cu' nun avi denti."-Poi, in genere, si gira e mi lascia con la sensazione di una cosa a metà…e se avesse ragione lei? Viaggi, traslochi, cambiamenti, addii, sono stanco di distacchi; ho avuto troppo o troppo poco e la rabbia allucinata di un'ora fa sta montando di nuovo, però adesso non so dove andare, tutto esaurito dal centro urbano agli eremi silenziosi ma qui non resto. Prendo la macchina e lascio campo libero, carusi ripigghiativi i cuti, io scinnu chiù sutta.
Un altro spostamento e questa volta per scelta precisa o, meglio, per un assoluto bisogno mentale. Guiderò per una settantina di chilometri, devo raggiungere un altro mare:so esattamente cosa è successo, la mia mente si è messa in cammino in modo autonomo, io la conosco bene, si fermerà da sola per sfinimento e finalmente mi lascerà dormire; ma adesso galoppa veloce verso sud, verso Ortigia, verso un angolo preciso di strada, in direzione d'antiche stagioni mai dimenticate.


giovedì 29 gennaio 2009

AGGRAPPATO AL CIELO- Quinta parte


CATANIA, UNA LUNGA VIA, DIRITTA VERSO IL MARE-
Qualcun’ altro ha ricominciato per me.

Adesso che sono altrove non ho affatto le idee più chiare. Qualcuno, osservandomi attentamente, noterebbe lo sguardo un po' obliquo di un naufrago che tenta in tutti i modi di restare in piedi, aggrappato all'albero della nave che mi ha portato sulle rive dello jonio, da quest'altra parte dell'isola.

Una parvenza di "simpatica dignità" è bastata finora a non farmi apparire fuori posto per le strade di questa città. Ci cammino da quasi ventisei anni e vorrei anche entrarne a far parte una volta o l’altra, ma la simpatica dignità non basta. Quindi cammino e mi guardo attorno.

Tutto è dominato dal grande vulcano : è così immanente che puoi sentirlo anche quando non lo vedi: io abito in una città in bianco e nero, in salita verso la montagna, in discesa verso il mare. All'angolo superiore di Piazza Borgo, oggi pomeriggio, c'è il vecchio che vende gelsi neri. Quando mi fermo si alza dalle cassette di legno che gli fanno da sedia e attende la mia domanda sul prezzo. Sono cari.

- "Quanti ne vuole, un chilo?"-

- "No, no, tre o quattro etti sono più che sufficienti." -

- Taliassi che meraviglia dutturi, i scartai io uno pi' uno....facemu 'na mezza chilata?"- Ma io sono irremovibile e lui, rassegnato, prende i piccoli frutti neri dalle vecchie ceste intrecciate di vimini e li infila in una bustina di plastica trasparente. I gelsi cominciano a stillare il loro succo nero come l'inchiostro. Stasera li metterò sopra un piatto bianco e giocherò a mangiarli uno ad uno nel difficile compito di non macchiarmi in modo indelebile.

Resterò a casa. Da solo perchè voglio stare accucciato ad ascoltarmi. Non spingo più nessuna emozione da tempo : ne sono circondato. Quando ero un ragazzo e correvo a perdifiato, talvolta facevo la stessa cosa: restavo accucciato ad ascoltarmi e il mio spirito si sfilacciava in mille rivoli che mi danzavano attorno. Mi pareva così d'essere ricco a dismisura. Da qualche mese un'idea antica è tornata prepotente a bussare alla mia testa, ormai non posso più eluderla; questa sera che già comincia a scendere sarà l'occasione giusta per tutto: per i gelsi neri, per me… e per l'idea. Basterà rimanere accucciato ad ascoltarmi: mi sembrerà di vivere più a lungo? Forse no.

Guardo in giù, dal balcone il panorama si distende verso la plaja e oltre sino alla costa saracena, verso Augusta; quante facce ha la terra dove sono nato? Mio padre non voleva tornarci, diceva che non ne avremmo ricavato nulla di buono , diceva che la Sicilia e i siciliani non sarebbero cambiati mai ( elogio dell'irredimibilità ) che la strafottenza ci avrebbe soverchiato e l'inciviltà annichilito ( elogio dell'ingovernabilità ). Ma nella tarda estate di trentatrè anni fa ci tornò, eccome se ci tornò. E aprì tutte le finestre di casa.

- "Bisogna cambiare l'aria. Picciotti che ve ne pare? E' grande e non è poi così cara. Enzo, le sedie di là, gli scatoloni in questa stanza."-

La sua voce rimbombava allegra per le stanze semi vuote, rotolava e rimbalzava tra le centinaia d'oggetti ancora distribuiti alla rinfusa. Mia sorella sembrava indecisa, lei non aveva pienamente gradito il tasferimento. Probabilmente duemila chilometri erano troppi...lo sarebbero stati sempre. Io invece ero euforico e fremevo per ricominciare tutto da capo come un pioniere del nuovo mondo, Lasciare ogni cosa alle spalle, definita o meno , e provarci di nuovo: il mio sport preferito.E fuori della finestra, bastava affacciarsi, c'era Palermo e il cielo era particolarmente azzurro.

Ma non soltanto del cielo dal colore inconsueto e inciso dal profilo delle palme dovrei dire; anche lo spessore dell'aria, gli odori e i rumori vicino ai mercati popolari disegnavano un mondo del tutto nuovo da esplorare. Di fatto, senza rendermene conto, cominciavo a dare al tempo un ritmo e un valore diversi da prima. Chi l'avrebbe mai detto! Credevo di conoscere quest'isola e quella città fin dalla mia infanzia ma era una conoscenza limitata,da turista , appassionato certo, ma turista con tutte le limitazioni del caso. Adesso potevo fare diversamente: viverci dentro un contesto e scavarlo dal di dentro , le occasioni per farlo mio sarebbero state infinite. Dovevo solo limitare il coinvolgimento ad un passo prima del connubio definitivo, pensai allora, questo per mantenere una lucidità di giudizio degna di un viaggiatore di lusso perchè tale mi ritenevo. Fare l’amore con distacco, in punta di piedi, non coinvolgermi, essere l’esatto contrario di quel che ero e sono!

I gelsi neri cominciano a poco a poco a diminuire nel piatto e io sorrido pensando al numero di sciocchezze che si partoriscono da giovani, alla quantità di proclami e posizioni "imprescindibili" assunte attorno ai ventanni. Palermo fu altra cosa e mi bastonò per bene. Catania mi guarda impassibile, forse vuole benevolmente evitare d'uccidere un uomo morto. Comunque e dovunque io sono sempre stato invischiato in cento problemi , legato fino in fondo ai miei errori , alle mie debolezze , alle vittorie effimere colpevolmente scambiate per trionfi dorati. Questo pensiero mi dà una leggera vertigine: come le scatole cinesi un’idea ne apre subito un’altra e un’altra ancora…Ecco fatto! Sono riuscito a sporcarmi.

E' bastato distrarsi un attimo correndo dietro ai miei pensieri ed una piccola macchia tonda, violacea come un bubbone si è aperta sulla camicia. La sfioro con le dita quasi debba sincerarmi della sua consistenza...e così il gioco è completo perchè le dita sono color inchiostro per aver maneggiato i gelsi. Adesso la camicia sembra la reclame di un film sulla mafia dei primi del '900 oppure quella di un horror di serie B . Il succo dei gelsi è quasi indelebile sui tessuti e quindi sì nun sugnu fissa io, dumani nun agghiorna! Incredibile ma vero, faccio a 50 anni gli stessi spropositi di movimento di, quando ne avevo 10 , deve trattarsi certamente di un problema genetico , una specie di malattia motoria dalle cause sconosciute . Nell'intimo sono distratto e goffo, cerco di non darlo a vedere, ma capita spesso e nei momenti meno adatti. La rabbia che mi faccio adesso è certamente esagerata per il motivo che l'ha prodotta eppure mi danno lo stesso dandomi dell'imbecille e giurando a me stesso che sarà l'ultima volta che accade e l'ultima camicia che sacrifico. Di prime e d'ultime volte ce ne sono state troppe nella mia vita: alla fine le une e le altre si sono eliminate a vicenda. E' rimasto solo quest'uomo che osserva il tramonto dal balcone con la camicia sporca e le mani imbrattate, solo questo.

La colonna sonora non ha niente a che vedere con la pace austera del momento: decine d'automobili starnazzanti stanno facendo del loro meglio per far diventare più nevrotica la città; in certe ore si danno tutte convegno lungo questa strada con i loro omini alla guida e vanno o perlomeno cercano di andare da qualche parte.Io invece da un po' di tempo mi sono fermato. Pare che alla fine capiti a tutti e senza preavviso. I clacson delle auto sono diventati distanti ma il motivo non è un’insperata buona creanza dei catanesi al volante; la causa vera di questo silenzio ovattato e innaturale è la conseguenza di una lunga rincorsa. Ed io finalmente capisco dove sono giunto stasera e perchè la sensazione del tempo ora ha questo sapore speciale: sono alla prima stazione dell'inventario della mia esistenza. Per qualche tempo il treno si fermerà qui, non so quando ripartirà ma in fondo non mi dispiace. E' un luogo molto particolare e voglio respirarne l'aria fino in fondo con una calma che non mi è consueta; sento che qui non puoi nasconderti niente.

Così ho deciso di sedermi su un'immaginaria panchina e ricordare. Ricordare bene e con attenzione perchè il tempo trascorso è tale e tanto da sfidare le capacità della mia mente a non farsi travolgere dai miraggi e dalle illusioni.Lo smarrimento di prima ritorna, insistente: questa stanza e questa città sono tutt'altra cosa dalla storia che voglio raccontare, sono la valle solitaria e lontana dove lascerò le mie ossa, il cimitero dove finiscono i dinosauri come me orgogliosi fino in fondo della loro inevitabile immanenza. Guardo fuori dal balcone e tremo un poco, solo un po’: questa idea della morte e dell'inevitabile fine fanno a pugni con i colori gloriosi della sera che sta rapidamente calando sulla baia d'Ognina. Mi accorgo improvvisamente che non sopporto più né la casa né i gelsi, che ne ho piene le tasche di tutto e tutti. Che bella furia allucinata e distruttiva si è impadronita di me! Che vadano al diavolo le elucubrazioni, i ricordi e tutto il carico d'inutile dolore che si portano dietro. Uscirò da quella porta, mi metterò anche io dentro la mia scatoletta con le ruote, starnazzerò come gli altri omini…meglio di loro e scenderò verso il centro. Voglio vivere, oggi, voglio sentire l'umanità strusciarmi vicino lungo Via Etnea, voglio vedere se la gente si accorge di me, se capirà di incrociare nei suoi passi un vero superstite, uno degli ultimi esemplari rimasti di amante degli amori impossibili. Questa città, in fondo, è famosa nell'isola per la forza e la varietà degli amori e degli amanti appassionati che la popolano. C'è una lunga e radicata tradizione sociale e letteraria col suo marchio di fabbrica, con le sue passioni assolute e quasi febbricitanti e mille sguardi di fuoco che sciabolano tra la villa e Via Umberto, occhiate che troncano il respiro e fanno bollire il sangue. Ci sono ancora molti cittadini "ruspanti", maschi con i baffi e femmine con le tette che amano recitare tutte le parti della tragedia amorosa e sanno fingere di non conoscerne l'epilogo. Lo dico senza sarcasmo: qui l'eros non è uno degli ingredienti, ma la prima delle essenze con le quali cucini la vita; se non mangi di questo cibo è megghiu ca cangi paisi pi' nun ristari dijunu. Ma io devo esser sincero, non sono restato digiuno qui negli ultimi trent'anni, anzi mi sono spesso intrufolato fra gli invitati al banchetto…e ho pranzato, cenato, fatto colazione e merenda. Conosco alcune persone che di questo stile di vita ne hanno fatto la regola: passione, sesso,incontri notturni, corna, orgasmi, estasi e disperazione. Un vortice senza fine e senza limiti d'età, un fiume d'energie incanalato verso una sola meta, l'unico gioco che valga la pena di giocare e, soprattutto, la negazione del dogma isolano secondo il quale “cumannari è megghiu 'i futtiri.” Ed io' Già cosa devo farne di me? Io non sono mai stato un buon commensale, non sono di bocca buona, spesso mi sono annoiato mortalmente ed ho lasciato la tavola ben prima del brindisi finale. Lo ripeto, non sono entrato a far parte della confraternita, l'oggetto del desiderio mi affascina sicuramente però a modo mio, esclusivamente mio; sembra un vanto ma adesso si mostra per ciò che realmente è, una sconfitta voluta e guardarmi attorno non serve, non basta a cancellare l'altra faccia della medaglia di questa passeggiata serale lungo il viale delle rimembranze. Sto peggio di prima, la realtà comincia a manifestarsi in modo evidente ed è triste: alla fine tutta questa gente che mi sfiora, mi guarda e ammicca, che mi cola addosso i propri umori densi mi dà un senso d'asfissia. E' meglio cambiare itinerario e dirigersi verso il mare, i pesci almeno sono muti, li puoi interrogare e inventarti le risposte: una delle mille facce della pietà.

mercoledì 28 gennaio 2009

AGGRAPPATO AL CIELO- Quarta parte


DUE PROFESSORI E UN CAVALIERE- Anatomia di un'evasione fallita

A Palermo, in primavera...
Dal balcone di casa mia si vede il mare; il golfo, per intero, dall'Addaura all'Aspra, l'ho sempre davanti agli occhi. E' un invito perenne a partire: non so quando lo prenderò sul serio, so soltanto d'essere diventato una corda di gomma, estensibile a piacere, adattabile a varie misure. Niente e nessuno può raggiungermi, io ho ancora paura!

Trascino le mie giornate, in pratica faccio solo questo, però mi so dare un tono. Sono poche le persone che sanno veramente di me, che conoscono la ferita e non scambino la mia indecisione per riservatezza.Ho ripreso in mano i libri di medicina con risultati più miserevoli di prima: mi manca una vera motivazione e poi non sopporto più nulla dell'ambiente universitario, dalle aule ai docenti, alle lezioni, ai discorsi con i colleghi…la verità profonda è che non accetto più me stesso e ciò è estremamente pericoloso. Mi sento "giusto" solo quando trasmetto in radio, è ridicolo, a volte me ne rendo conto, ma è così. Per riempire le settimane che non passano mai ho accettato gli orari più strani e i programmi fiume: riesco a reggere un'ora e mezzo di musica progressiva e alternativa assieme a Giovanni Russo, non è cosa da poco. Mandiamo gli Area, i Led Zeppelin, Klaus Schulze… c'è un pezzo che m'intriga parecchio e si chiama "concerto per una porta e un sospiro", a me pare ciò che più si avvicina al mio modo d’essere; il vero problema sta nel fatto che non riusciamo ad infilare gli stacchetti pubblicitari fra un brano e l'altro.

Dolfo Miceli ci ha detto che la dobbiamo finire con sta' camurria, che se non mettiamo la pubblicità ce ne possiamo andare a fare gli alternativi sulla spiaggia di Mondello o dentro il cesso di casa nostra. Ieri sera riunione di redazione: Giovanni ed io all'ordine del giorno ( anche se è sera?! ). Ad un certo punto, per spiegare allo zotico le obbiettive difficoltà estetiche che abbiamo col genere di musica che trasmettiamo, gli facciamo sentire un magnifico pezzo di Philips Glass in cui l'artista, per dare maggior risalto all'emozione della musica che colma lo spazio vuoto del nostro animo, nel mezzo preciso dell'ellepì lascia otto minuti di assoluto silenzio. Dolfo ci guarda sbigottito, non può credere che nella sua radio siano trasmesse cose simili.

- "Voi siete scemi, totalmente pazzi! Ma vi rendete conto che la gente penserà che s'è interrotto il segnale, che è crollato il palazzo, che è morto il dee jay (lo spera ardentemente ). No, non si può ragionare con stronzi del vostro calibro ( è affranto ) voi mi manderete in…"-.

Si è bloccato all'improvviso e adesso ci guarda con occhi inspirati, vuoi vedere che abbiamo fatto breccia nel suo animo di gretto procacciatore d'affari?

- "Otto minuti, avete detto. Ma è perfetto, c'è perfino un margine di tempo. Ragazzi vi ho risolto il problema! La pubblicità la piazzate tutta dentro quegli otto minuti di silenzio"-.

Giovanni l'ha mandato affanc…io invece, che non ho nessuna voglia di abbandonare l'ambiente, mi sono scelto un'altra fascia oraria. Adesso il mio cavallo di battaglia è il notturno da Radio Elle, 100,1 megahertz di magia stereofonica!

Di notte sto bene. Prendo i dischi e vi lascio scivolare sopra la puntina; miscelo la musica dopo averla scelta e divento tutt'uno con lei. Faccio solo ciò che mi piace e, dall'ultimo piano di questo palazzo, Palermo è tutta ai miei piedi, la musica in cuffia e le luci della città che bucano il buio. Da un po'di tempo mi succede di uscire fuori da me e di osservarmi: è come se un altro uomo si materializzasse accanto a me e poi, scostandosi di qualche metro, mi scrutasse con estrema attenzione a braccia conserte. Non ha un'età definita, ma mi conosce bene: non è crudele con me ma molto esigente e, soprattutto, ha l'aria di chi conosce già il finale. Ieri notte ha messo un braccio sulle mie spalle e, mentre i Jefferson Starship attaccavano " Miracles ", mi ha detto:

- "Devi parlare con tua madre invece di cercare interlocutori improbabili. Ti farà bene, non hai altre scelte.E poi te ne devi andare, insomma è chiaro che qui hai fatto il tuo tempo e ormai giri in cerchio. Guardala bene questa città, Enzo, fissati il suo ricordo nella mente perché dovrà bastarti per lungo tempo"-

Chiacchierare con mia madre: non conosco molte altre cose più dolci e piacevoli. La osservo, mentre mi parla dei suoi anni da universitaria…penso all'enorme fortuna di mio padre. Del resto non c'è nessuno che, dopo averla conosciuta, non le abbia voluto bene per sempre. Devo confessare che una parte di me, la più pigra e infantile, da questa casa non se n'andrebbe mai. Non sarebbe magnifico mummificarsi fra queste stanze, crogiolandosi nel lutto per il mio amore infranto?

- "Ho fatto un po' di the, Enzo, te ne porto una tazza?"-

- "Si, va bene. Così faccio una pausa con Patologia Generale"-

Arriva presto con il vassoio e tutto il resto; siede di fronte a me e, come al solito, ha già messo il succo di un intero limone nella tazzina. Sono stufo di dirle che il limone lo doso io, ho il dubbio che si burli di me. A volte è ancora una ragazzina.

- "A quando gli esami?- E' un po' timorosa nel chiedermelo. -" Tra un mese"- Silenzio…

-" Ma tu, mamma, quanto impiegavi mediamente per un esame?"-

-"Non puoi fare questo tipo di paragoni, troppo diverse le materie e la struttura didattica degli atenei d'allora, non ti pare?"-

Ha detto proprio così, sembra una professoressa, in pratica esattamente quel che è; figuriamoci se non facevo la figura del cretino. Meglio cambiare argomento.

- "Che anni erano quelli della tua università?"-

- "Fammi pensare…beh, subito dopo la fine della guerra, il '48-49. In facoltà eravamo quattro gatti sai. Ci si conosceva tutti, in fondo l'ambiente degli universitari era abbastanza ristretto"-

- "Vuoi sostenere che eravate un'elite?"-

- "Si, lo eravamo…però ci mancava la coscienza sociale di esserlo, l'arroganza snobistica. Eravamo soprattutto giovani, Enzo, con una gran voglia di ridere, di amare. La guerra era ormai alle spalle."-

Quando lo dice fa uno strano movimento con le mani: lo stesso di quando nomina la nonna e i fratelli che non ci sono più. - "E così in quell'ambiente hai conosciuto papà, universitario come te"- Sorride, forse ha dimenticato i defunti. Lo spero, quello è un argomento terribile. Troppe ombre e ferite mai sanate, un rimpianto infinito.

-" E' vero, ma l'ambiente dei primi incontri fu la Parrocchia di Via Terrasanta. C'era una bella atmosfera, avevamo grandi idee, grandi sogni. Tuo padre faceva parte di una compagnia teatrale giovanile, dovresti fartele raccontare da lui alcune cose. Ma sai che, per un po' di tempo pensai che corteggiasse una mia amica? Invece cercava lei per arrivare a me, alla fine fu quell'altra ad aprirmi gli occhi".-

- "Quindi trascorrevi lunghi periodi a Palermo?"-

- "Dipendeva da varie cose, la città era bellissima allora. Tu non puoi immaginare quanto, Enzo. Oggi, beh... oggi è quasi irriconoscibile. Se sapessi cos'era passeggiare di sera fra Via Notarbartolo e Viale Libertà, il profumo nell'aria, le signore eleganti, poche macchine…"-

L'ascolto senza interromperla. Ha una voce musicale, in casa non c'è nessuno e noi non abbiamo altro da fare che inseguire le immagini dei nostri pensieri.
-" Comunque gran parte degli amici e della mia vita era ancora legata al paese, ai compagni del liceo, ai parenti, agli amici di famiglia, Ti ricordi la signora Giannì? Abitava nella traversa dietro la Matrice, dove c'era la pasticceria di Don Cocò Vivona, prima del laboratorio d'orologeria di Giovannino Modica. E il dottor De Sabato? Tu l'hai conosciuto centenario, ma lui lavorò fino agli ottant'anni; lo rivedo mentre, durante la guerra, gira per il paese con il calessino per curare i feriti. Si era laureato alla regia università di Napoli, nella seconda metà dell'ottocento, a dirlo oggi sembra una cosa inventata. La moglie non l'hai conosciuta ma era un vero personaggio: la signora Totò che si piazzava davanti ai clienti del marito, dopo la visita per farli pagare perché il dottore… figuriamoci, lui se lo scordava sempre. Nella vecchia casa della nonna c'era una piccola porta che tu non puoi ricordare; metteva in comunicazione l'appartamento del dottore con il nostro. Lui così poteva venire quando voleva a visitarci, il palazzo era unico, lo sai. Poi sull'altro lato del corso, dopo la farmacia, ci abitava la vedova del pittore Gennaro Pardo. Restò vedova molto giovane, teneva sempre su un cavalletto in camera da letto… "-

La voce di mia madre è diventata un sottofondo: lei continuerà così a lungo ed io farò ogni tanto un cenno col capo, per non distrarla. Vorrei nasconderle che sono a spasso, per i fatti miei, per le strade di Castelvetrano; dobbiamo compiere due tragitti separati, tenendoci per mano.Su e giù per le vecchie scale della casa di mia nonna: ho nel naso gli odori, diversi piano per piano. Dallo studio fotografico, passando dal vecchio salotto, sino alla cucina, in cima a tutto. Dall'odore di sostanze chimiche in camera oscura a quello di gelsomino in salotto, per arrivare alla mitica pasta col sugo e melanzane fritte, un odore che vale un pranzo.Naturalmente nella mia mente in paese è sempre estate: il sole arroventa i marciapiedi e le cicale si sfiniscono nel loro perenne concerto. Nello studio dello zio entra un uomo minuto vestito di tutto punto:un bell'abito grigio, i pantaloni sorretti da bretelle la camicia chiara con una cravatta verde e, in fondo alla mano, un bastone leggero da passeggio col pomello d'avorio. Da come si muove si capisce che è di casa.

- "Professore Oliveri, sa' bbinidica. Come stiamo? La signora?"- L'uomo risponde con grazia, la voce è minuta come il fisico. Si siede in poltrona con un movimento lieve ed elegante assieme, pare che non abbia peso. - "Vicenzino, buongiorno. La signora sta bene…qualche piccolo acciacco. Lo zio Leone invece, lo hai sentito? Combatte, mischinu, con un brutto affanno…forse il cuore…La stagione s'è presentata molto calda, le campagne sono già assetate…Vicenzino, ma non è la figlia del commendatore Infranca quella nella foto in vetrina?"-

Il professore discute di queste banalità tranquillo, con un leggero sorriso sulle labbra mentre tormenta il pomello del bastone. Pian piano si esauriscono tutti gli argomenti: quelli familiari, meteorologici, di varia umanità. Resta un po' di cronaca cittadina: grande evento al Cine Teatro delle Palme, una compagnia di Palermo rappresenta"Il Trovatore" di Giuseppe Verdi. Anche il figlio del professore ha una parte nello spettacolo: meglio, una porticina nel coro… il ragazzo si farà, l'impostazione vocale è buona, per la presenza scenica bisogna lavorarci. Mentre parla, l'uomo si trasforma: i gesti diventano più ampi, anche il corpo sembra acquistare volume e gli occhi brillano felici. La lirica, il suo grande amore! Capace di trasformare una stanza qualsiasi in un palcoscenico teatrale. Una passione talmente grande da eliminare il senso del ridicolo quando inizia ad intonare un'aria dietro l'altra; mancano molte ottave d'estensione, ma non importa. Dove non arriva la voce lo soccorre il desiderio che gli brucia negli occhi, esce così dallo studio, salutando sulle ali del "Madre infelice, corro a salvarti". Resta solo un gran silenzio.

- "Mamma, da quanto tempo è morto il professor Oliveri?"-

- "Da più di dieci anni credo, era molto malato…era una persona cara…"- Le trema un po' la voce. Devo stare attento con mia madre, la sua sensibilità non è più controllabile da tempo. Basta poco: una parola, un nome, certe volte un aggettivo, i volti e i ricordi prendono vita e la trascinano via. Adesso è una sera d'agosto asciutta e piena di stelle, qualche amico si è aggiunto a noi per la passeggiata serale tra i templi dorici e lei sta chiacchierando con Pisani e la moglie. Papà li ascolta attento, ci sono anche le figlie, profumano molto e sono molto belle; Pisani si tiene accanto la bambina più piccola, quella nata inaspettatamente sei anni fa.

Il professor Pisani parla e spiega con vigore da par suo la condizione di quest'ultima sua figlia e la terapia medica a cui la sta sottoponendo. La bambina segue i gesti del padre con i suoi grandi occhi neri: sorride lieve…anche quando non dovrebbe. -" La farò vedere da uno specialista di Palermo. Si risolverà, tutto si risolverà!"- E' deciso, come sempre Pisani: stringe a sé la figlia ma gli occhi ed il gesto dicono altro. Raccontano un terribile tormento e una rabbia sorda per un affronto che la vita non doveva fargli. - "E poi, mi deve credere, Concetta…"- Abbassa il tono.

- "La battaglia più dura è vincere i pregiudizi della gente"-

Mia madre annuisce con affetto, forse pensa, come me, che la vita ha avuto un bel coraggio ad infastidire il professore. Lui è ritto come un fuso, più alto della media, fisico da atleta con larghe spalle e vita stretta, tutto nel suo aspetto mette soggezione: il viso dai lineamenti decisi, il naso grande e affilato, quasi scolpito, i capelli mossi e brizzolati, gli occhi scuri e indagatori. Ma è la voce ciò che più imbarazza: profonda e quasi senza inflessioni dialettali per lui è un'arma terribile. Parla poco, a scatti, con frasi brevi, asciutte quanto le opinioni che esprime, dure come giudizi inappellabili. Il professore è tale per un titolo conquistato "ad honorem": ha insegnato storia dell'arte durante la guerra ma non ha mai cessato d'esercitare la sua vera professione di scultore, intagliatore del legno e quant'altro. Pisani è un'artista.Guarda il mondo con un certo distacco, il viso burbero celato in parte dal fumo azzurrino dell'immancabile sigaretta. Qualche giorno fa, sfuggito al solito sonnellino postpranzo, in un caldissimo e solitario pomeriggio d'agosto, sono arrivato sulla soglia della sua bottega artigiana. Lui mi ha guardato con un certo cipiglio, però non mi ha detto niente ed io, che sono solo un ragazzino, ho interpretato il fatto come un salvacondotto e mi sono messo a curiosare in giro. La stanza, che s'apre direttamente sulla strada è enorme: un grande emporio di sogni per la mia fantasia. Teste e busti di gesso e pietra, fregi e sculture in legno, odore di cera, di stoffe e di strane vernici, pannelli carichi di lime, scalpelli, punteruoli, raspe e un arsenale di utensili sconosciuti.In un angolo semibuio, poggiato su una lastra spessa di compensato, troneggia un grande modello in legno del tempio E di Selinunte, in avanzato stato di lavorazione. Il modello non è in vendita. Quello è l'angolo di poesia e d'eternità del Professor Pisani. Senza rendermene conto me lo trovo dietro le spalle e mi giro a guardarlo: mentre si toglie di dosso un po' di polvere col dorso della mano sembra non accorgersi della mia presenza e sorride con gli occhi socchiusi. Quindi si accende l'ennesima sigaretta e torna al banco dell'intarsio, al mondo reale e quotidiano, quello dove la sua bambina non avrà speranza.


Il the nella tazza è quasi finito, mia madre mi guarda in silenzio ed io non posso dirle nulla perché temo che possa leggermi nel pensiero, non voglio che vi scopra Pisani, la sua bottega e la sua famiglia. Oggi è difficile allontanare la mente dal vecchio paese in collina, forse perché capisco che non ci saranno repliche di questo documentario in bianco e nero. Mio nonno diceva che niente rende meglio il carattere di un viso delle sue sfumature di bianchi, di grigi e di neri. Mio nonno era un fotografo e riempì il paese di visi, congelandoli nel rettangolo di una fotografia; molti di essi ora dimorano, attaccati a delle lapidi, dalle parti del convento dei Cappuccini. Aveva ragione il fotografo, la brezza leggera che attraversa la grande piazza dove si affaccia il Teatro Selinus e il Palazzo Pignatelli è in bianco e nero mentre sta passando il cavaliere. Lo spazio sorride attorno a lui e non potrebbe essere altrimenti: il cavaliere Vajana ha una simpatia naturalmente fusa ad un garbo squisito. E' sempre vestito in modo impeccabile, sembra uno chansonnier francese dei primi del secolo, abito bianco immacolato, gilet,papillon, bastone da passeggio flessibile, scarpe lucide e paglietta. Non è un vecchio professore di liceo, nemmeno il notaio di famiglia, non è il farmacista e neanche il medico condotto. Il cavaliere Vajana esercita il mestiere di "apparatore", qualcosa che la nostra società, adesso, non riesce neppure a concepire. Egli cura l'addobbo ( l'apparato) delle chiese in occasione di qualsiasi cerimonia, festosa o triste: si occupa di tutto, dalle luci ai fiori agli arredi e ai tappeti. Quando è soddisfatto del suo lavoro, attraversa la navata centrale della chiesa, esce dal portale e poi rientra per godersi il colpo d'occhio.

Pare che ogni cosa fili sempre liscia per lui, ma naturalmente non è così: talvolta, mentre parla o saluta, si guarda attorno con gli occhi stretti a fessura, guardingo. Si è reso perfettamente conto del nuovo corso delle cose e di come il paese non sia più lo stesso. Probabilmente avrà valutato questo nuovo progredire un fatto ineluttabile e ad esso si sia non sottomesso ma neanche opposto, semmai lo abbia un po' ridicolizzato. Per il cavaliere non vale la pena piangere sopra i bei tempi andati; di essi lui è rimasto, probabilmente, l'ultimo testimone e vuole uscire di scena con classe, senza piagnistei. Lasciare un buon ricordo, possibilmente allegro e vitale, questa è l'unica cosa da fare. Ed è appunto ciò che sta facendo, mentre attraversa la piazza vasta e assolata: un gruppo di bambini chiassosi corre appresso ad un maturo signore vestito di bianco. E' uno scherzo…o forse no ma gli si fanno più vicini: i cuccioli rischiano qualche bastonata per il loro ardire? Il signore si ferma e si mette a distribuire a piene mani caramelle con un largo sorriso, poi si muove, allunga il passo per sparire nell'aria tremolante di caldo. Addio cavaliere; ora posso partire anch'io. Il lungo giro dei commiati è terminato.Vado altrove alla ricerca di qualcosa che m'appartenga direttamente, senza mediazioni familiari, che sia esclusivamente mio, qualcosa che mi faccia uscire da questo volano infinito di memorie. Parto e non mi accorgo che sto fuggendo.

lunedì 26 gennaio 2009

AGGRAPPATO AL CIELO- Terza parte

Via Notarbartolo: la polvere. Dedicato a mio padre ed alla lontananza che spacciamo per reciproca conoscenza.
La stanza di casa mia era ombrosa, mi piaceva riconoscerla: la poltrona accoglieva il mio corpo come solo un mobile di famiglia può fare. Sembrava il saluto di un vecchio amico. Nulla era fuori posto, sarebbe stato incredibile il contrario; ma io non provavo alcun conforto.Ero lì e basta, a guardarmi in faccia e a non riconoscermi.
Nella libreria alcuni volumi, più consunti di altri, parlavano delle mie letture più assidue: Pirandello, Stendhal, Quasimodo…e il secondo volume della storia delle civiltà del Durant, splendido come sempre nella sua brossura dorata. Davanti al mobile in noce, imponente, la poltrona in velluto verde sulla quale ero seduto e, a lato, la lampada a stelo a forma di calice, uno dei pochi acquisti bizzarri di mio padre. Nel silenzio placido delle cose familiari sentivo le innumerevoli ore trascorse ad inseguire i miei sogni segreti. Tutti quei libri di fronte a me sembravano un folto pubblico assiepato nell'arena della mia vita. Essi avevano già chiaramente espresso la loro opinione: ero certamente un idiota.

La sensazione di vuoto mi isolò e mi protesse per un tempo indefinito e così quell'anno, giunto quasi alla fine, potè defilarsi senza ulteriori scossoni. Masticavo le giornate lentamente, ma esse erano prive di gusto: grossi ciotoli levigati tutti uguali gli uni agli altri, rotolavano tra la libreria e le strade di Palermo. Io non ero più il turista di lusso a tempo pieno di sei anni prima, ero diventato piuttosto un poveraccio affamato, costretto a guardare il banchetto della vita da dietro un vetro spesso: le esistenze altrui.Nessun rumore, nessun profumo… ai miei sensi non giungeva più niente e tutto quel movimento che osservavo, privato delle sue note caratteristiche, sembrava un turbinio senza senso. Sapevo cosa facevo e dove mi trovavo: il bagaglio storico e personale dei luoghi che attraversavo mi era ancora perfettamente noto, ma io non lasciavo traccia di me stesso nel mio animo. Ero diventato un libro stucchevole riletto senza voglia.Le rare volte in cui ponevo attenzione alla mia condizione esistenziale, quelle dove non arrivava l'onda del grande sonno, la mia spinta vitale non superava un cupo fatalismo e una rabbia sorda e inutile.Fu una fortuna che la dolcissima primavera siciliana fosse indenne alle mie elucubrazioni crepuscolari e passasse , affascinante, sopra il mio pietismo stolto e grigio. Cominciò a sfogliare il libro che custodiva l'inventario perfetto delle emozioni senza tempo, mise dentro i miei occhi il blu antico delle sere sopra i palazzi barocchi, dentro le mie orecchie la commozione infinita d'una musica che non aveva mai cessato di suonare e, una sera d'aprile, mi portò in Via Dante per abbandonarmi da solo con i miei pensieri dinanzi al grande cancello di Villa Malfitano.
Non era ancora buio, mi trovavo in quella "terra di nessuno" in cui la luce era sufficiente a definire i contorni delle cose ma inadeguata per distinguere con certezza il giardino al di là delle sbarre nere. Così vedevo l'oleandro accanto alla casa del custode, ma non riuscivo a distinguerne il colore. L'edificio principale, lo sapevo, era completamente nascosto dalla massa arborea del giardino e si trovava alla fine del viale di ghiaia bianca che iniziava ai miei piedi e spariva, dopo una curva, a trenta metri dal cancello.Il rumore delle auto alle mie spalle era in perfetta sintonia con la mia città fine anni '70, distonica e volgare, che mi blaterava alle spalle. Fu il fastidio d'ascoltarla che mi spinse a cercare rifugio mentale nella penombra elegante e leggera di quest'altra Palermo, sparita cinquant'anni prima dentro un giardino. E' impossibile conoscere con certezza il funzionamento dei meccanismi della vita, anche se è la tua, ma quella sera mi riappropriai di me stesso, dei miei sentimenti e, con gioia, finalmente mi sentii male.La vecchia signora Whitaker uscì dal suo ritratto ad olio posto all'inizio della grande scala che portava al piano superiore della villa. Disse qualcosa alla sorella dentro l'altro quadro assorta in chissà quali pensieri e poi attraversò il giardino passando sotto la volta verde del gigantesco ficus per introdurmi a casa. Mi sembrò un'eccessiva confidenza per uno sconosciuto come me, forse uno scambio di persona? Mi chiese solamente di chiudere gli occhi… una visita personale e discreta per una dimora solitaria e impossibile.
Mobili e oggetti fine secolo, vetrine, tende, lampade… un gusto squisito. Ritratti ovunque: amici, parenti, aristocratici, regnanti, letterati, musicisti, molti autografi. Ottime frequentazioni Madame, vedo che conosceva i Florio, i Mazzarino, prefetti, cardinali e ministri..Alle pareti tele dell'ottocento siciliano che non avrebbero sfigurato in un museo e alcuni grandi arazzi che potevano essere appesi solo qui. Percorsi il lungo e silenzioso corridoio centrale e mi fermai davanti ai due grandi uccelli di bronzo, alti più di due metri con una lanterna pendente dal lungo becco da trampolieri... più in là alcuni notevoli vasi cinesi di qualche antica dinastia e due statue in porcellana raffiguranti una coppia di elefanti indiani. A destra e a sinistra doppie porte imbottite di cuoio per accedere a salotti in stile, sale da conversazione, stanze da pranzo e da biliardo, salone da ballo. Un'immensa e dorata prigione per la vecchia signora Delia e i suoi ricordi d'inizio secolo.Annusai a fondo l'impalpabile malinconia delle vite altrui e dei sogni dimenticati nelle varie stanze, sospesi nell'attesa di voci che non sarebbero mai tornate. C'era una sottile, garbata ironia in questa sospensione infinita: essa aveva evitato alla villa e al suo contenuto di diventare un insieme di triste, lussuoso ciarpame.
Delia Whitaker non mi offrì il tè essendo morta cinque anni prima e nessun altro poteva farlo in sua vece. Villa Malfitano era vuota e silenziosa: non ero io l'ospite atteso, appartenevo ad una società e ad una città troppo diverse. La signora tornò, dignitosamente, dentro il suo grande ritratto ad olio e riprese l'infinita conversazione con Norina, la sorella.
Io rimasi a guardarle a lungo, compresi e me n'andai in silenzio evitando, per fortuna, di piangermi addosso. A casa mi attendeva la poltrona in velluto verde davanti alla libreria… e un ultimo viaggio da compiere.
TRAMONTI AD OCCIDENTE
Tutto ciò che segue è reale, ma mentre Villa Malfitano è restata come io l'ho descritta, Selinunte adesso è all'interno di un'area archeologica che, per quanto mi riguarda, ha snaturato il senso che avevo del luogo. Niente dura per sempre.

Selinunte era un'ampia falce di sabbia dorata che terminava con un basso promontorio di terra e roccia. Selinunte erano le mie estati di bambino, una magia che non si sarebbe ripetuta mai più.

Di questo luogo conoscevo ogni pietra, ogni goccia del mare, persino i ciuffi di rosmarino e cardo selvatico mi erano amici.I miei compagni di scuola in Lombardia, alla fine dell'anno, si sentivano dei privilegiati perché si trasferivano sulla riviera romagnola o sulla costa ligure. Li compativo, io ad ogni estate facevo il bagno con gli antichi Dei di questa terra; mi lasciavo accarezzare dall'acqua turchese mentre i piedi giocavano con la sabbia bionda e granulosa.
In questo mare avevo imparato a nuotare e, quando m'immergevo, scoprivo poi le colonne rosee dell'acropoli attraverso il filtro acqueo sui miei occhi un attimo prima di riemergere. Ricordo che gli ultimi istanti che precedevano il bagno erano pieni di una frenesia felice trattenuta a stento dai tempi rigorosi di mio padre in versione comandante salutista.Gli ordini erano chiari e mi obbligavano a sgambettare lungo la rena dorata per almeno un'ora, il tempo necessario ad una parziale digestione. Bollivo sotto un sole impietoso e guardavo il mare, imprecavo sottovoce, ma ubbidivo, avevo forse alternative? Poi l'acqua, amante dolcissima,mi prendeva fra le sue braccia ed io diventavo immemore di tutto.

Le immagini dell'infanzia scorrevano adesso davanti a me con lucida pienezza. Non udii nemmeno le parole del cameriere al quale avevo ordinato la consumazione perché cercavo di fissare altre voci; mi sfuggivano, quando ero ad un passo dal prenderle.- Ci desidera un po' di limone nel chinotto? Oppure della granita?-Il giovanotto in giacca bianca ostentava un savoir faire improponibile visto il luogo e l'ora, forse s'era ingannato per il mio aspetto. In questi posti io, fin da bambino, sono stato spesso scambiato per uno di quei turisti del nord, gli unici snob che per decenni sono discesi sino all'anticamera dell'Africa soltanto per visitare l'area archeologica.
Risposi di buon grado al cameriere: l'affetto per i luoghi della mia infanzia addolciva la mia naturale misantropia. Sapevo con assoluta certezza che era l'ultima volta che avrei potuto incontrarli, l'ultima occasione per sentirli nell'intimo delle mie fibre così come essi erano sempre stati per me.


A volte è una questione d'odori nell'aria e capisci, in un momento, che il tuo sentimento per un luogo sta per cambiare in modo ineluttabile. Puoi disperarti o far finta di niente, ma io, seduto ad un tavolo del bar Lido Azzurro, di lì ad una settimana sarei stato un altro in un altro luogo e in un tempo diverso. Questa certezza mi dava un disagio profondo, non avevo alcun potere, alcuna voglia d'impedire la metamorfosi. Perché avrei dovuto far sopravvivere un simulacro di Selinunte, dei miei quattordici anni, del mare sotto l'acropoli? Per inorridire tra uno o due decenni dinanzi alla maschera grottesca che sarebbero diventati? Esiste un accanimento terapeutico anche per le emozioni, i sentimenti, i ricordi: è questione di scelte, io avevo deciso che questo luogo sarebbe scomparso con me e sarebbe stato per sempre solo mio.
Allungai le gambe stirandole sotto il tavolino e cominciai a sorseggiare la bibita. Poca gente in giro per le strade di Marinella ma all'inizio di Giugno, in un tardo pomeriggio feriale, era un fatto normale. Per i siciliani il sole, il mare, l'aria tiepida sono beni scontati e, come tali, facilmente trascurabili. Io stesso, dopo i primi due anni, dovevo fare, di tanto in tanto, lezione di saggezza a ritroso per combattere l'abitudine a tanto ben di Dio.- Desidera altro signore? Abbiamo un ottimo gelato al caffè, alla nocciola,al cioccolato oppure un semifreddo alla mandorla? -Cominciavo ad odiare il cameriere. Ero qui in un pigro e insignificante martedì pomeriggio allo scopo preciso di star solo a sentirmi vivere e quest'uomo da tre quarti d'ora si sentiva in dovere di descrivere al tedesco di turno( io) le specialità della casa al ritmo di una proposta ogni dieci minuti.- No grazie, va bene così. Il conto per favore.-Accarezzai lentamente la fotocamera che doveva immortalare l'ultima parte della giornata.


Molti anni prima, in un pomeriggio uguale a questo, avresti visto quattro persone camminare lentamente lungo la stradetta che attraversava la zona archeologica. L'ordine del drappello era sempre lo stesso: mio padre in testa, davanti a tutti di almeno una decina di metri. Poi mia madre, guardinga e speranzosa di un ritmo di marcia meno baldanzoso. Infine io e mia sorella, occupati a sciamare ovunque in ordine sparso. "Passeggiate in famiglia" erano chiamate ed erano ogni volta un'avventura diversa; una sorta d'animazione primordiale senza telecamere ma con alti indici di gradimento attraverso le rovine dei templi dorici della collina orientale, le pietre ammucchiate come pugni di sale bianco sopra un poggio che guardava il mare.

Cominciai ad affrettare il passo, il sole aveva iniziato la sua discesa…sentii la voce di mia madre.

- Nenno, Nenno, insomma rallenta, che fretta c'è.-

Mia sorella rideva inseguendo una lucertola.

- Io, tanto per precisare, non corro. Cammino. Nun sugnu comu attia e to' matri, lentopede e scacciavo. D'altro canto paisani siti e comu i paesani camminati. Va viri inveci unnè to' figghiu Enzo.-

- Ma u sai chi sì veramenti spiritusu! Veramenti, cittadinu e spiritusu.-

Lo sfizio di sempre fra loro: discutere in dialetto. A noi figli, invece, era riservato esclusivamente l'italiano. Perfetto. Mi fermai, come facevo allora, per raccogliere una lumaca attaccata ad uno sterpo rinsecchito. Perdevo tempo dunque e restavo indietro, allora come adesso.



Fermo davanti al tempio adesso il silenzio era assoluto, con la mano cercai la fotocamera dentro la tasca del giubbotto. Sulla pelle scorreva un brivido sottile, un'emozione vera: come da bambino questo silenzio era il segno premonitore del miracolo che mi attendeva fra le rocce.

Le colonne si andavano colorando di un rosa più intenso rubato al sole che, sempre più grande, era ormai quasi sopra il Baglio Bonsignore. Dovevo muovermi più in fretta. D'ora in poi il tempo avrebbe mutato nell'intimo la sua essenza. I minuti, i secondi potevano dilatarsi o coagulare gli uni sugli altri senza uno schema logico prevedibile.



Vent'anni prima, per mio padre, era molto più semplice: una sera dopo l'altra l'estate lunghissima gli regalava opportunità continue di vivere senza fretta. Dopo la sosta al tempio E, ancora pochi passi e tutta la famiglia giungeva sullo spiazzo delle rovine del tempio G: un'enorme quantità di blocchi di pietra grigia, un groviglio inestricabile e confuso di rovi, terra e resti architettonici popolati da gechi e insetti. Dell'immensa struttura restava il perimetro d'alti gradini ed un'unica alta colonna interna, levata come un dito ammonitore e misterioso. Era chiamata da sempre "lu fusu di la vecchia".Le voci mi raggiungevano nuovamente…
- Mamma, che significa? E dimmelo. Perché non me lo dici?-
- Non significa nulla di speciale, Mariella. E' un soprannome popolare come tanti, non vedi, somiglia ad un fuso per filare questa colonna-
Interveniva mio padre e, mentre salivamo per un sentiero fra le pietre, ci raccontava per l'ennesima volta di com'erano le cose prima e non fossero più. Filatura compresa. Sentivo il silenzio, sempre più assordante. Percorrevo, da solo, la vecchia strada ed ero stupito di come niente fosse cambiato: le gambe sembravano muoversi in modo autonomo. Mi fermai. Attesi un momento ma le voci erano scomparse, lontano da molto tempo, questo pellegrinaggio iniziato da solo, in solitudine doveva finire. Avanti per qualche metro: ero proprio sotto lu fusu e le ombre diventavano sempre più lunghe.
Altri passi veloci… finalmente "la seggia" era davanti a me! Per uno strano e insondabile caso questo pezzo d'architrave, crollando dall'empireo della sua alta funzione, rotolando e spezzandosi assieme alle migliaia di altri blocchi di pietra, era rimasta in cima al mucchio. Superba e insensibile agli insulti del tempo, capovolgendosi, si era sistemata come un divano di foggia avveniristica sopra tutti i resti della gloria ellenica. Arrampicandomi poggiai infine le spalle sullo schienale di pietra: era ancora dolcemente tiepido per il calore accumulato durante il giorno.Ma, ora, non c'era più tempo per riflettere: lo spettacolo stava per iniziare.Il cielo terso, immacolato, da azzurro era diventato blu intenso.Io, seduto nella mia poltrona, vidi comparire la prima stella: Venere mandò un lampo di luce e cominciò a brillare come un gioiello.
Il sole, largo e arancione, s'era portato sulla verticale dell'acropoli, il suo disco, diventava nella parte inferiore, di un rosso carminio, come fosse venato di sangue.Non c'era più luce, piuttosto un riflesso interno e luminoso che aveva vita propria.L'astro scese tra le colonne del piccolo tempio dell'acropoli che erano diventate tanti minuscoli aghi neri, rilevati sullo sfondo del cielo e del mare. Adesso avevano entrambi un'impossibile tinta color indaco. Mi girava la testa. Non vedevo nulla, ma sentivo tutto con precisione assoluta.
Poi, all'improvviso, questo stillicidio cromatico e temporale divenne un urlo viola. Il disco solare emise un respiro tagliente di luce rossa e il tempo si fermò.Tutto immobile: il cielo, la terra su cui posavo i piedi, il sole pronto ad essere inghiottito dal mare, le pietre dei templi e l'aria con il suo sottile aroma di rosmarino. Io ero lì, come il bambino di vent'anni prima e l'uomo di adesso. I miei ricordi d'infanzia legati ai pensieri da vecchio che rigiravo nella testa.Ogni cosa al suo posto, sospesa, perfetta nel suo significato più intimo, senza alcuna necessità di collocazione temporale. Probabilmente era questa l'eternità, quella parte di metafisico che ognuno di noi possiede e che spesso chiamiamo anima; il desiderio struggente che divora la nostra vita come un'amante irraggiungibile.
Mi invase un benessere calmo, profondo ed io lo assaporai fino in fondo, le braccia allargate e la testa reclinata all'indietro: poter riflettere e finalmente capire come si era chiuso il cerchio della mia vita, cosa avevo fatto e cosa ero diventato. Furono le cicale a segnare la fine dell'incantesimo, a farmi scendere dal divano di pietra. Attorno al tempio camminavano tranquillamente mio padre, mia madre, mia sorella; la famiglia di nuovo unita e fu molto bello tornare ragazzino, con loro.
Quella notte, seduti sul grande capitello rovesciato, abbiamo ascoltato con attenzione le molte storie, le piccole grandi avventure narrate da mio padre. Il firmamento era un enorme puntaspilli di velluto nero pieno di stelle e galassie. Fu eccitante osservare una luce mobile che attraversava lo spazio sopra di noi: un aeroplano? Forse un satellite? Più probabilmente lo sguardo divertito degli antichi Dei che osservavano il nostro formicolare quaggiù sulla terra.
Papà, sono certo che anche tu ricordi le notti in cui stavamo tutti con il viso in aria a farci accarezzare dal vento tiepido che veniva dall'Africa.Esse non sono trascorse per sempre, sono soltanto andate altrove a raccontare di noi quattro e dei nostri stupori.

sabato 24 gennaio 2009

AGGRAPPATO AL CIELO- Seconda parte

Trapani: formalità per andare in scena e morire dignitosamente.

Io conoscevo solo me stesso innamorato di te : una sensazione esclusiva e totale: il riflesso d'un uomo innamorato, pieno di sé, forte del suo sentimento nella mente e nel corpo, compiaciuto della propria inaspettata bellezza. Era una visione abbagliante.

Quando diventò un'illusione ottica te ne accorgesti solo tu… e cominciai a farti pena, poi rabbia ed infine, per evitare il fastidio, te ne andasti lontano a studiare, a costruirti un avvenire. Per noi potevano bastare qualche lettera o qualche telefonata; altre erano le cose importanti, le prospettive da modellare.

I sognatori sono morti…si dispensa dalle visite.

Poi mi bastò guardarti in viso perché l'inquietudine diventasse paura. Ero appena sceso dal treno ed eri lì sul marciapiede ad aspettarmi con la famiglia al gran completo. Baciarti sulle guance, abbracciarti, fu come strapazzare le corde di un violino. I soliti convenevoli s'intromisero a non far precipitare la situazione, al resto pensarono i familiari.

Per tre giorni, incredibilmente, custodimmo i nostri resti senza una preghiera, un lamento. Eppure la tua pelle era cerea, i tuoi meravigliosi occhi verdi opachi e sfuggenti. La recitai anch'io la parte del fidanzato che esce a passeggio, che fa salotto con parenti e amici, che ride celiando alle battute di rito . Riuscii anche ad ingurgitare di tutto, a pranzo e a cena, anche il fastidio di me stesso.Ma alla quarta colazione la catena di montaggio delle ipocrisie inutili si arrestò. La parte di me che in tutti gli anni precedenti era stata espulsa dall'aula, con un colpo di mano rientrò, trovò un attimo di pausa e con poche parole raggelò l'uditorio. La maggioranza, ovviamente, reagì con vigore appellandosi alla profondità dei sentimenti più veri, all'ovvietà e alla bellezza dell'amore che trionfa sempre su tutto e tutti, ma era già in crisi. Il tarlo del dubbio aveva iniziato il suo lavoro distruttivo.Maledizione, maledizione Giusy: al diavolo i pranzi e le cene, le chiacchiere e le visite, alla malora questi sorrisi da saldi fine stagione. Al diavolo tutto signorina.Che c'era nei tuoi occhi ? paura, disappunto, fastidio… il nulla?Non c'era comprensione né solidarietà, ma al pranzo ci arrivammo lo stesso. E fu qualcosa di memorabile.Nonostante gli sforzi delle persone che c'erano accanto persisteva nell'aria la sensazione , incombente, che qualcosa stava per accadere. La mia fidanzata, inappuntabile, sembrava districarsi bene in questo gioco di bastoncini cinesi: ne aveva già levati dal tavolo un paio di veramente pericolosi.Il pubblico venuto ad assistere alla commedia " Un amore difficile" stava iniziando a tirare un po' il fiato: forse si andava verso un lieto fine e già circolavano i primi sorrisi di compiacimento. Fu una frase, una piccola serie di parole, una caratteristica del tuo modo d'essere tagliente nel parlare. Arrivò dura, inaspettata, dolorosa come un tradimento…ma non riesco a ricordarla nemmeno ora.Calò come una mannaia e già non c'era più nulla da fare, la reazione a catena si era avviata. Finalmente dopo giorni e giorni eravamo soli, nuovamente soli come qualche anno prima e tutto il mondo si stava tirando in disparte, sullo sfondo. Ti guardai in silenzio, mentre furtivamente ti mordevi il labbro.Io ero un automa e quel che vivevo era un incubo pari per intensità solo al silenzio che regnava in salotto. Continuavo a far scorrere nella testa gli ultimi anni, ma stavolta i conti non tornavano: i sogni, le emozioni… ogni cosa con un sapore diverso.Il paese antico, poggiato in cima al monte fu l'unico testimone dell'assassinio: guardava da millenni quel panorama, quella terra di viti e gerani, di sale e di azzurro, di mulini a vento e di sole. Speravo che potesse convincerti, che fosse capace di dirti ciò che io non sapevo. Speravo….Faticai persino per convincerti ad entrare in salotto. Volevo parlarti, chiarirmi con te. In realtà non sapevo nemmeno da dove iniziare e tu non mi aiutasti. Eri lì, terrea in viso, rigida come una statua di cera che, sciogliendosi, muta forma e dimensioni sino a diventare una macchia senza senso sul terreno.Te lo chiesi, infine, se ancora mi amavi e non volevo sentire la risposta.- Non lo so, Enzo. Non lo so più…-Il mare aveva inghiottito l'arenile e i due ragazzi che vi passeggiavano sopra. Addio signorina, ero ridiventato il vecchio ragazzo che sapeva molte cose e, mentre scendevo le scale di casa tua per l'ultima volta, mi fermai e guardai in alto. Eri lì, al primo piano. Mi guardavi, i tuoi occhi, i tuoi magnifici occhi verdi, smarriti, inutilmente provati. Fuori il vento sollevava polvere, dovevo fare in fretta, il treno per Palermo partiva alle diciotto e trenta.

Infine ci voleva del tempo per capire, un tempo non definibile, breve o lungo che fosse. Tu eri appunto il mio tempo, quello che mi serviva per raccontarmi nei gesti più disparati e apparentemente lontani.Le frasi giuste arrivarono in ritardo come sempre: dicevano, di un uomo fortunato perchè aveva conosciuto l'amore che si trova nei luoghi e nelle persone, nelle parole e persino nelle ideologie, nelle fughe e nei ritorni. L'amore era un patrimonio enorme e noi non potevamo contenerlo tutto...si apre un interruttore, un giorno, e poi a ondate la vita ti porta via come un fiume in piena e tu non puoi rifiutarti di essere diverso da prima!

Il treno mi distanziava come un replay al contrario C'era qualcosa che mi chiamava in questa terra dove sono nato e non era solo desiderio di luce e di sale, era il bisogno assoluto di rientrare nel calco prima che fosse troppo tardi: l'orologio scorreva in fretta ed io già intravedevo la periferia della città dal finestrino: Palermo, stazione di Palermo Notarbartolo, gracchiò la voce dall’altoparlante e mi sembrò un motto di scherno. Il primo di una lunga serie.

giovedì 22 gennaio 2009

AGGRAPPATO AL CIELO- Prima parte- Una spiaggia a sud



Desiderio di seno, di pelle, di labbra: cerco di penetrarti con le parole e ti bevo con la mente. Sono trascorsi pochi istanti ma non posso più tornare indietro, è una tensione inarrestabile verso un orgasmo liberatorio; te ne sei accorta e ti sei riconosciuta , mi agganci con i tuoi occhi verdi, quasi febbricitanti, e non mi lasci più. Forse pensavi che tutto questo non fosse possibile, pensavo anch'io la stessa cosa prima di conoscerti. Ascoltami, ora, in un attimo, sta morendo il vecchio ragazzo che sapeva molte cose. Al suo posto sta nascendo un uomo nuovo, ignorante di tutto, ma curioso d'ogni cosa. Parlami, signorina, avvelenami un po' alla volta: sta scomparendo tutto, gli oggetti e le persone intorno a noi. Saremo soli io e te fra poco, assolutamente soli. Quel che non sapevo è che la solitudine di noi mi avrebbe accompagnato per sempre.
PALERMO
Cosa mi era accaduto? Non avevo la certezza di volere la verità a qualunque costo, quelle belle verità che ti accolgono in un'inevitabile abbraccio.

Potevo giustificarmi con l'enormità del fatto: l'amavo, anzi l'avevo amata moltissimo. Inutile negare, sciocco girarci attorno. Era questa la verità pura e semplice.Ora mi restava soltanto lo sterile esercizio di crogiolarmi nella rassegna dei fatti: Cosa eravamo noi? Chi eravamo?

Dieci anni prima eravamo due bambini che talvolta s'incontravano: troppo piccoli e lontani, uno a Milano l'altra a Trapani: due ragazzini ai capilinea dell'Italia e della vita. Che potevamo mai raccontarci di tanto impegnativo da riannodare ogni volta i fili? Nulla, credo, quasi nulla. Ma le risate risuonavano, quelle di lei soprattutto, tante e naturali; argentine come piccole cascate destinate ad estinguersi ai primi calori. Solo risate e piccoli segreti, da pronunciare sottovoce, con la mano davanti alla bocca.Confidenze ormai dimenticate per sempre. Questo eravamo. Però, durante una lunghissima e immobile estate, un gesto adesso lo rivedevo: staccato da tutto, particolare. Lei non poteva essere così spesso stanca da posare la testa sulla mia spalla. Gli adolescenti possiedono la forza di scordarsi di se stessi a volte, è un meccanismo d'autodifesa per sopravvivere all'eccessivo profumo della vita e percorrere ogni sentiero senza sceglierne nessuno. Unici testimoni del momento furono quindi la spiaggia dorata sotto l'acropoli di Selinunte e i nostri quindici anni. Eravamo ad un passo dal Paradiso e ci scherzavamo sopra. Durante quell'estate accadde spesso, gli amici e i parenti non videro, non capirono…non capimmo nemmeno noi. Il sole di quella stagione del '66 fu così implacabile da bruciare in fretta ogni idea, ogni proposito. Ci alzammo presto dall'arenile e ce n'andammo, ognuno per la sua strada: volammo via come pagliuzze mosse dal vento di scirocco.
Adesso vedevo tutto con chiarezza: le stagioni che trascorrevano uguali, le estati seguenti che si erano consumate distrattamente. Un'occasione sospesa: quattro anni prima ero abbastanza giovane da avere dentro il grande vuoto da riempire in fretta di sogni verosimili; il vuoto adesso mi stava inghiottendo nuovamente!
Dimenticare, dimenticare, l'unica parola d'ordine valida; impossibile eseguire l'ordine capitano riesco solo a ricordare...La tarda estate del '73 a Palermo mi riservava una sorpresa dietro l'altra. La più grande riguardava la luce, un fenomeno banale che, invece, da queste parti aveva una personalità decisa che mutava il carattere e il significato delle cose. Questo era fondamentalmente il motivo per il quale uscivo quasi ogni sera prima del tramonto. Volevo godermi il trascolorare della luce sulle case, le vie, le piazze. Volevo imprimere nella mente il colore del cielo dietro gli alberi di Viale Libertà un minuto prima dell'ultimo guizzo di sole, salutato e accompagnato dal cinguettio impazzito di migliaia d'uccelli che si preparavano alla loro precoce notte.
Quando arrivò il primo Natale siciliano con i suoi diciotto gradi a mezzogiorno e il sole caldo sul mare azzurro di Mondello, pensai ad uno scherzo bizzarro del calendario e cominciai a capire che c'erano ancora moltissime cose da regolare sul nuovo fuso orario della mia vita. Pensai solo a questo e non potevo immaginare il cataclisma in agguato in una luminosa mattina d'Aprile in una strada di un piccolo paese bianco alle porte di Trapani. Io non sapevo, mi sono interrogato mille volte, la risposta è sempre la stessa: io non sapevo, non avevo considerato i segni che pian piano negli anni s'erano coagulati. Avrei dovuto invece, potevo vedermi che ero maturo, pronto a cadere nell'unica direzione preparata per me dalla vita.Selinunte, la spiaggia, i piccoli segreti, le confidenze, la sua testa poggiata su di me. Non ci fu alcuna premonizione. Solo un lampo accecante.

AGGRAPPATO AL CIELO- Premessa


Trent'anni passati a scarabocchiare ovunque, a scrivere a sprazzi, a volte di corsa con una foga febbrile, come se non ci fosse più tempo per nulla. Oppure con lentezza esasperante, oppresso e confuso da una pletora d'emozioni altrimenti inesprimibili.

Perchè lo faccio? Per chi lo faccio? Io non sono sicuro di conoscere le risposte esatte, ma sento che scrivere mi allevia, in parte, la malinconia di vivere, rende buona o più accettabile la rabbia segreta che mi stringe da molti anni lo stomaco. In realtà ciò che scrivo nasce quasi interamente da un processo d'autostima, l'unico che mi sono concesso in tutta la mia vita ed è un caso talmente raro che non intendo sopprimerlo alla nascita.

Ma trent’anni sono tanti, troppi e troppo vari i luoghi e le lusinghe con cui essi mi hanno incantato; eppure se ci fosse anche un solo momento di consapevolezza, un solo alito di vento in cui cogliere la fragranza della vita…scrivere sarebbe servito a qualcosa.Parlo di Enzo, degli occhi che ha incontrato e del tempo trascorso a scrutare gli indizi della verità accampata dentro ognuno di noi; parlo della realtà e dei sogni che da essa nascono per farci vivere un altro mondo e altri sogni ancora.
Ci sono strappi evidenti nel lungo racconto che sto passando sul blog; capisco che al di là delle sensazioni che può dare la storia qualcuno potrebbe sentirsi più a suo agio se non ci fossero salti temporali così evidenti. Ma nella mia vita il passato spesso è tornato alla ribalta come presente sotto mentite spoglie, non è poi così semplice e scontato dire dove e quando: non per le emozioni e i sentimenti. Ma in fondo che importanza può avere? Certe emozioni sono assolutamente senza tempo: ingabbiarle dentro gli anni è spesso un'operazione stupida e crudele. Spero che i miei figli, a tempo debito, lo comprendano. E' la sola cosa che posso lasciare loro in eredità.

A Palermo ci sono nato, in Italia ho vissuto e girato, tra Milano, Genova e Roma; nell'isola sono sempre passato come ogni emigrante che si rispetti e le mie estati di ragazzo profumarono di sale e gelsomini, di mare e assolati latifondi. La storia che racconto sono io, tornato a metà degli anni 70 a Palermo definitivamente, crocefisso da un amore infinito nella terra dei miei avi (Trapani), fuggito poi alle falde dell'Etna per incapacità ad accettare un verdetto, schiaffeggiato da un altro amore nella città di Archimede...invecchiato ad inseguire un sogno che non ha tempo.

Il racconto termina circa 5 anni fa e l'ho scritto in due settimane, fra gennaio e febbraio del 2007: è stata l'esperienza più dura ed esaltante della mia vita, chi ha mai provato a scrivere capirà il senso di queste parole. Fra l'inizio e la fine ci sono molte possibili uscite, molti altri pezzi di vita e molti visi con accenti diversi; per tutti un tempo indefinito.